Quarant’anni fa il lupo lo davano per spacciato in Italia, estinto; invece lo spopolamento dei
monti e l’impegno di istituzioni e volontari gli hanno restituito spazio vitale. E nelle notti
d’inverno branchi di lupi o esemplari solitari attraversano borghi di montagna semideserti e
sono capaci di costeggiare le nostre autostrade e transitare non lontano in linea d’aria dai
sobborghi di alcuni capoluoghi di regione.
C’è da aver paura? Rischiamo che divorino nonne e Cappuccetto Rosso postmoderne? No, i
lupi non attaccano mai l’uomo, a differenza delle tigri, dei cinghiali, dei cani rabbiosi. Pare
che abbiano paura di noi, preferiscono stare alla larga. È uno dei motivi per cui si spostano col
favore della notte.
Queste e altre cose parecchio interessanti si apprendono leggendo “La via del lupo” di Marco
Albino Ferrari (Laterza), esperto di altezze, alpine soprattutto. Di lupi non era tanto esperto,
ma l’aver trovato loro orme nel corso delle sue escursioni ha svegliato la curiosità. Allora ha
incontrato chi si occupa di lupi, chi controlla le loro mosse, le studia; ha ascoltato i pionieri
del primo censimento agli inizi degli anni ’70 e le guardie forestali dei nostri giorni. Da questi
incontri Ferrari ha tratto non un saggio barboso ma quasi un romanzo d’inchiesta, che riesce a
fondere accurata informazione con ispirata evocazione di atmosfere.
La grande notizia del libro non è tanto quella del ritorno dei lupi, la si sapeva già. Scoperta
degli ultimi anni è un’altra, ed ha smentito fior di studiosi: il lupo è in grado di seguire un
intero sentiero, un’unica via, fra gli Appennini e le Alpi, partire dai Monti Sibillini e arrivare
a Cuneo, in Francia, in Svizzera. Appunto, passando per boschi, sfiorando autostrade e
balzando su picchi frequentati quasi solo da stambecchi, compie un percorso non del tutto
visibile ai nostri occhi e impraticabile per le nostre gambe. Ed arriva dove deve arrivare,
spinto dalla ricerca di cibo o di una compagna, se è un lupo solitario.
Esiste infatti in ogni branco il lupo che paga per tutti, “il lupo espiatorio”, polo opposto del
capo branco. Prima o poi questo paria dei lupi, che già è sempre l’ultimo a mangiare (sempre
che gli altri gli lascino qualcosa), viene invitato ad sloggiare, ad abbandonare la comunità.
Non gli rimane che la via dell’esilio, in altri territori, in cerca di una compagna altrettanto
solitaria per dar vita a un nuovo branco. È così che anche le Alpi si sono ripopolate, con gli
esemplari che salivano dal centro Italia. Dicevamo che molti lupologi non ci credevano, era
convinti che la colonizzazione arrivasse da Est, che non esistesse una via del lupo a partire dal
Sud.
Invece un esemplare ha dimostrato che la via c’è. Era appunto un lupo solitario, smarritosi in
pianura, raccolto da premurosi umani e reinserito nella vita selvaggia. Però gli esperti si erano
preoccupati di mettergli addosso un dispositivo Gps ed hanno così potuto seguire le sue mosse
con sms e mail puntuali per tutto il suo viaggio dall’Appennino tosco-emiliano alle Alpi. La
storia di questo lupo, battezzato Ezechiele, è bellissima, commovente, degna della penna di
Jack London (ma anche Ferrari se la cava bene).
Non ha vita facile, il lupo, è ancora a rischio estinzione. Non per bracconieri o montanari
spaventati che ogni tanto sparano. Il vero rischio arriva dai cani randagi che certo non osano
attaccare un lupo; avrebbero la peggio. Però con le lupe ci vanno eccome, e di conseguenza
nascono troppi ibridi, incroci pericolosi per la purezza della razza e a volte per la nostra
incolumità. I lupi-cani infatti non temono l’uomo, hanno memoria genetica di un rapporto con
noi. Sono capaci eccome di attaccare, allora. La colpa però è dei troppi cani, non dei pochi
lupi.
Ma se a memoria d’uomo non si ricordano aggressioni lupesche ai danni della nostra specie,
l’animale in questione ha nelle favole e nel nostro subconscio un parte non rassicurante.
E c’è un motivo: il lupo non è pericoloso per le nonne o per i tre porcellini ma lo è parecchio
per le pecore. Quando un lupo incontra un gregge diventa veramente spietato, sadico,
invasato. Fa strage, trasforma l’ovile in un macello, anzi peggio di un macello, dato che
uccide più di quanto possa mangiare. Ammazza per piacere, per ruolo datogli nella creazione;
sembra che sia la paura stessa delle pecore ad eccitarlo. Pare un gioco reciproco: le pecore
recitano benissimo la parte della vittima sacrificale, non scappano, non reagiscono, si fanno
prendere dal panico e si abbandonano a gesti inconsulti fino a schiacciarsi e soffocarsi in un
angolo dell’ovile. Quasi si immolano.
Ora questa brutale verità della natura dice sicuramente qualcosa ai pastori (per nulla contenti
del ritorno dei lupi, si stanno attrezzando con recinti elettrificati e cani ben addestrati) ma
forse dice a tutti noi qualcosa sulla natura del male, sulla sua presenza nel mondo. E allora
capiamo perché le antiche popolazioni dedite alla pastorizia, quando dovevano figurarsi il
principio negativo, pensavano al lupo: così avvenne presso gli iranici, gli ebrei e gli antichi
popoli del Nord. A proposito di questi ultimi, cantarono una saga in cui la fine del mondo (“il
crepuscolo degli dei”) avviene quando il gigantesco lupo Fenrir, simbolo della notte cosmica
che tutto dissolve, inghiottisce sole e luna.
Ma la fiaba finisce bene, un cacciatore viene a salvare Cappuccetto Rosso e la nonna. Un
nuovo cielo e una nuova terra son profetizzati anche dalla cupa mitologia dei vichinghi. Non
tutti i lupi poi vengono per nuocere se un’esemplare femmina ha allattato Romolo e Remo e
se esiste il lupo bianco che è immagine di Apollo Iperboreo, signore della luce che mai si
spegne.
E ci teniamo a ricordare un’altra cosa imparata dal libro di Ferrari: se gli agnelli si fanno
massacrare, le capre resistono, combattono e spesso riescono a mettere in fuga il lupo.