Cultura MontesDurante la mia adolescenza ho seriamente rischiato di diventare un……prete, ma, ripensandoci adesso, trascorsa ormai buona parte della mia vita e ritenendomi quindi più maturo, penso che, se prete avessi per forza dovuto essere, sicuramente il mio esempio sarebbe stato lui: L’Ours de la Montagne.
L’Abate Gorret, di certo uno dei massimi esponenti dell’alpinismo della seconda metà dell’ottocento e indubbiamente uno dei più discussi e irrequieti canonici del suo tempo, anche se non l’unico.
Esponente di spicco del fenomeno valdostano che intrecciava, nelle vite di questi personaggi, la passione per l’alpinismo con la condizione di abate o di canonico; di rappresentante del clero insomma.
Non mi preme qui citare i resoconti delle sue imprese alpinistiche, reperibili su molti testi, bensì parlare della sua grande capacità di scrittore, mai noioso e, a tratti, anche spiritoso, spesso addirittura mordace. Potremmo definirlo una penna raffinata, al contrario di molti suoi contemporanei per lo più tendenzialmente retorici e verbosi.
A mio avviso, per apprezzarne il talento, bisognerebbe conoscere il francese, lingua nella quale si esprimeva come tutti i suoi conterranei. Due sono i volumi da lui scritti che sono veramente degni di essere letti: Guide de la Vallée d’Aoste par l’ Abbé Gorret et le Baron Bich (Torino, 1876) e Victor-Emmanuel sur les Alpes (Torino, 1878).
L’Orso della Montagna (l’Ours de la Montagne) è il simbolo di quel lato della sua personalità che più di ogni altro ha contribuito a tramandarne la fama. Tutti i suoi biografi hanno potuto contare su innumerevoli aneddoti particolarmente gustosi per arricchire i loro testi: il Grand Gorret (così chiamato a causa della sua taglia) fu persona dallo spirito indomito ed anticonformista in un periodo storico che mal tollerava simili atteggiamenti. Se da un lato noi oggi sorridiamo al racconto delle sue clamorose bevute di vino o di come avesse promesso di “portare” sempre l’abito talare, in effetti portandolo sì, ma nello zaino, dall’altro dobbiamo fare mente locale alla situazione sociale dell’epoca, quando i comportamenti estrosi provocavano scandalo e la sua condizione di sacerdote (allora come oggi) non faceva che amplificarne la portata.
Non deve stupirci dunque che un uomo, che ora ci appare così brillante, ai suoi tempi abbia provocato non poche preoccupazioni ai suoi superiori, sia in Valle d’Aosta come in Francia, dove fu parroco di montagna. La sua ormai passata frequentazione con il re Vittorio Emanuele, l’amicizia della regina Margherita, nonché quella di tutti i più bei nomi dell’alpinismo nostrano non gli evitarono il “confino” nella rettoria di Saint-Jacques, ultimo agglomerato di povere case in cima alla Val d’Ayas, ai piedi del Monte Rosa. Vi rimase 21 anni, sempre più indomito nello spirito ma sempre più declinante nel fisico, fedele ai suoi doveri di pastore ed educatore delle persone che gli erano state affidate Nel 1905 dovette abbandonare l’incarico e ritirarsi nel priorato di Saint-Pierre, la casa di riposo dei sacerdoti anziani e malati.
Morì il 4 novembre 1907 pochi mesi dopo essere salito per l’ultima volta al Piccolo San Bernardo, luogo per lui ricco di ricordi, ed esserne ridisceso a piedi, accompagnato dall’inseparabile alpenstock, dono della “sua” regina Margherita.

Cieli di pietra

    Cieli di pietra, la vera storia dell’Abate Gorret

   Vivalda editore.