“Partivano. La gente di queste parti è sempre partita. Da questa borgata, da questa valle. Non per salire sulle creste, per vedere un orizzonte nuovo o per conoscere posti diversi. No. Partivano perché ci sono terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre….”
Un libro che si presenta con queste parole non può che prefigurarsi come uno struggente spaccato di una civiltà che non è più.
Già il fatto che sia scritto al passato lo presenta come uno di quei testi, quelli che io prediligo, che riescono a farti entrare dentro un sottile velo di nostalgia.
L’autore, Marco Aime, illustre antropologo, narra qui la vita dei pastori conosciuti nella sua infanzia, quando passava le vacanze a Roaschia dai nonni e Roaschia a quel tempo era il posto dei pastori. Non è ortodosso, il coinvolgimento emotivo in uno studio antropologico, ma in questo caso il risultato è affasciante, a metà tra una ricerca e un racconto poetico.
Quando il giovane Marco era bambino e non voleva mangiare, i nonni gli dicevano “Dovresti andare un po’ con i pastori, vedi che impareresti!”. Perché la vita dei pastori era dura, sempre a viaggiare, dal paese scendevano nelle Langhe, nel Monferrato fino alla pianura dalle parti di Piacenza, per “rubare l’erba” di altri, sempre stranieri e sempre visti come invasori. E questi pastori sono uguali a tanti altri, i pastori abruzzesi in cammino verso la Puglia non erano molto diversi. I pastori sono camminatori per forza. Perché le pecore non hanno erba tutto l’anno negli stessi posti, i pastori si devono spostare e lo sanno fare: “uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre”.
Il vecchio Toni, che racconta la sua vita ad Aime, racconta i pastori come persone di cui gli stanziali (i contadini, gli “uvernenc”) sospettavano, dice “Noi pastori eravamo sempre dalla parte del torto, perché rubavamo l’erba”. Nelle sue parole c’è rassegnazione, la rassegnazione di chi sa di dover subire per forza qualche discriminazione, qualche insulto.
I pastori si sentivano fratelli con gli zingari. Venivano chiamati i “gratta” dai contadini.
“Si cercava di passare nei posti non troppo affollati, di nascondersi un po’, sempre in colpa, sempre dalla parte del torto, lungo strade poco battute dove, magari, incontravi altri come te. Altri con le pecore, altri che venivano dalla montagna, altri che andavano”
Dal libro di Aime esce la nostalgia per i pastori erranti, erano brava gente che sopravviveva alla povertà senza aspettarsi altro dalla vita.
Libro consigliato a tutti quelli che vogliono camminare sulle tracce dei pastori, nelle valli piemontesi, ma anche sui tratturi d’Abruzzo o nei supramonti sardi.
Marco Aime
Editore Ponte alle Grazie