“Mai, per quanto stanco, cadrà lungo la via colui che ha avuto la grazia di un giorno di montagna; quale che sia il suo destino, lunga o breve la vita che gli è data in sorte, tempestosa o quieta, egli è ricco per sempre.”
John Muir, di origini scozzesi, emigrato all’età di undici anni in America, dopo aver fatto innumerevoli mestieri, nel 1869, all’età di trentuno anni, partì “in cammino con un gregge di pecore” per le montagne della Sierra, facendosi impiegare come aiuto-pastore. Non avendo un soldo in tasca, Muir trovò così il modo per raggiungere quello che desiderava: vagabondare nella wilderness alla ricerca della “bellezza”.
Muir è il prototipo del “Tramp”, parola cara alla tradizione americana: evoca grandi spazi e uomini che li percorrono a piedi – una tradizione, letteraria e non, che dai primi pionieri arriva fino ai poeti beat del secolo scorso. Lo spirito del “Tramp” è ben esemplificato in questa frase di Muir: “buttare una manciata di foglie di tè e un po’ di pane in un vecchio sacco e saltare il cancelletto del giardino di casa”. Il libro “My first summer in the Sierra”,(la mia prima estate sulla Sierra), si rifà proprio al diario che Muir tenne giorno dopo giorno nel periodo del suo vagabondare tra le montagne dello Yosemite.
Grande è l’abilità descrittiva di Muir, che con dovizia di particolari, riporta osservazioni dettagliate su piante fiori e animali incontrati nel corso del suo vagabondare. Ma, seppure egli mostri grandi doti di naturalista (ne sono un esempio le osservazioni sull’origine glaciale della Valle di Yosemite), l’approccio di Muir è quello del “mistico”, del contemplatore della natura, dell’uomo che ricerca lo stupore che la wilderness è capace di infondere nell’animo umano con le sue meraviglie; Muir è un escursionista instancabile e non si fa scappare nessuna occasione per lasciare il gregge di pecore e partire solitario all’esplorazione di montagne, valli e cascate.
Ecco alcuni dei tanti passaggi riferiti alle emozioni suscitate in Muir dalla visione della valle dello Yosemite; stati d’animo in cui si potrà ritrovare chiunque abbia vissuto personalmente l’euforia e la gioia suscitati dal contatto con gli scenari selvaggi…
“Mai mi sono trovato dinanzi a tanto imponente spettacolo, a tanta illimitata profusione di sublime bellezza montana. A chi non abbia almeno una volta ammirato un simile panorama con i propri occhi nessuna descrizione, per quanto elaborata, potrà comunicare neppure un’idea della grandiosità e spiritualità che da questa veduta emana. In un empito di irrefrenabile entusiasmo urlo e gesticolo, con grande meraviglia del mio cane san Bernardo Carlo…” Un uomo lungimirante, che aveva già intuito gli aspetti consumistici del modaiolo turismo cittadino, che all’epoca cominciava a invadere l’immacolata Valle di Yosemite. Muir vede il turista benestante come un individuo che quasi non riesce ad apprezzare la bellezza dei posti che visita, preoccupato com’è delle pratiche sportive in cui è impegnato. “Pare strano che i turisti in visita a Yosemite siano così poco commossi da tanta inusitata grandiosità, quasi avessero gli occhi bendati e le orecchie tappate (…) Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di verme su pezzi di filo di ferro ricurvi, allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport”.
Il diario di viaggio di Muir è anche una descrizione avventurosa della rude vita dei montanari, per niente idilliaca, di pastori che vivono in solitudine, “instupiditi dalla fatica” e dagli abiti così sporchi da formare una stratificazione di interesse quasi “geologico”; di situazioni in cui il pane scarseggia e lo si sogna la notte. E poi vi sono gli attraversamenti del gregge dei torrenti e le incursioni degli orsi nella notte, e i bivacchi notturni all’aria aperta sotto la luce della luna.Credo proprio che quanto sin qui esposto illustri a pieno quanta poesia emani da questo testo che non deve mancare nella libreria degli amanti vera della natura.